I superstiti di Ragnarok – Le letture del sabato

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Uscito per la colonna “Urania” per la prima volta nel ’76, “I superstiti di Ragnarok” di Tom Godwin è un libro di fantascienza a cui a primo acchito non davo una lira. Acquistato in una bancarella di Lucca insieme ad un’altra decina per qualche spicciolo, è stato una vera sorpresa.

Il libro, circa 130 pagine, parla di come 4000 esseri umani, catturati e resi schiavi da esseri extraterrestri, i “Gern“, siano stati trasportati e abbandonati su un pianeta ostile, Ragnarok.

Sebbene su Ragnarok l’aria fosse rarefatta, la gravità fosse una volta e mezzo quella terrestre ed il pianeta popolato da belve feroci e assassine, sul punto di estinguersi, questo sparuto manipolo di uomini, muore sì, ma cerca di adattarsi. E nel farlo l’autore ci consegna quella che secondo me è una visione romantica, ma fondamentalmente realistica dell’approccio dell’essere umano alla vita.

Le prime generazioni di abitanti cercano di difendersi come possono dall’ambiente, ma contemporaneamente tendono a riprodursi, sebbene sono coscienti del fatto che nel farlo, le donne, quasi sicuramente moriranno. Successivamente cercano mano a mano di abituarsi alla gravità, erigere le prime abitazioni e difendersi dagli animali, e cercano di riuscire a comunicare dapprima in forma rudimentale, poi in maniera sempre più articolata, anche con l’ausilio di determinati metalli che costarono la vita a svariate persone.

Di generazione in generazione, quindi, gli uomini affinano le tecniche di sopravvivenza e fanno anno dopo anno, sempre più loro il pianeta. Le generazioni native non soffrono più per la gravità, sviluppano un’intelligenza e una capacità di adattamento migliore e più articolata dei loro antenati terrestri.

E qui, a mio parere, esce fuori il meraviglioso disegno dell’uomo che riesce, nonostante le immani difficoltà di un pianeta, Ragnarok, inospitale e tremendamente freddo, a vedere se stesso non come fine ultimo, ma come mezzo per il perpetuarsi della specie. L’uomo che non ragiona egoisticamente e che anche se sa che la sua non potrà mai essere la generazione che avrà il beneficio di lasciare il pianeta per tornare sulla Terra, si adopera affinché i suoi figli ed i figli dei suoi figli, un giorno, chissà quando, possano tornare finalmente a casa.

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La speranza che anima l’agire di questi arditi e valorosi ragnarokiani (si dirà così?) ci fornisce anche a noi “terrestri” la convinzione che nulla mai è perduto anche quando sembra che non ci sia più alcuna chance di salvezza, che mi sembra una prospettiva di vita di sicuro molto più allettante, rispetto a quella di chi perde la fede e si rinchiude nella propria negatività. La speranza effettivamente non muore mai e gli abitanti di Ragnarok ne sono la dimostrazione letteraria più lampante e credibile.

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